C’è spazio nel dolore per il piacere e c’è desiderio di piacere in chi soffre di dolore cronico? Questo è un primo quesito, piuttosto ambivalente, come si può pensare di trovare spazio di manovra e di pensiero su questi temi stando fuori da franchi disturbi comportamentali affettivi che non prevedano comportamenti patologici sado-masochistici? O, peggio, come si può pensare a un tema così delicato e fragile senza apparire demagogici o peggio superficiali, od essere al più tacciati di stupidità solo perché si pensa di uscire dagli schematismi: paziente-dolore-medico-altri professionisti-terapia.
Non è mia volontà affrontare la complessità del dolore morale e del dolore esistenziale, ma alimentare un pensiero alto sul tema del diritto al piacere in chi soffre.
Queste mie affermazioni possono persino apparire così difficili e inquietanti da renderne quasi imbarazzante anche lo scriverne.
Riappropriarsi del benessere o di un dolore accettabile e condivisibile, che non debordi dalla propria sopportazione è il primo passo per riaffacciarsi ai piaceri della vita da parte di chi soffre di dolore cronico di qualsivoglia natura.
Accettare il proprio corpo che cambia, con la malattia e con l’età, valutare la riduzione del proprio sex appeal e il ripiegamento somatico nei propri acciacchi, è il passepartout per affrontare serenamente questi temi.
Come si può pensare al piacere se si è impegnati in una guerra spesso unilaterale, senza uscite con il dolore? Il benessere, anche transitorio, il non dolore, deve essere quindi uno dei punti di vista da trattare in ogni patologia che si colleghi al dolore … ben venga quindi la legge 38 anche con alcuni aspetti di obbligo e volutamente sanzionatori.
Quindi: soglia soggettiva e sopportazione individuale del dolore sono due dei “must” che non solo algologi e palliativisti affrontano, ma che ogni medico dovrà affrontare e fare propri in futuro, come concetti collegati e collegabili alla cura di ogni patologia fisica e psichica.
Cercando di tentare di scomporre il tema, sappiamo che in fondo anche alcuni aspetti di terapia possono collegarsi direttamente e indirettamente al piacere, inteso non solo come piacere fisico-sessuale, ma come connotazione più estensiva, mi riferisco all’uso di alcuni derivati cannabinoidi in alcune malattie croniche ad esempio. In questi casi la terapia addiviene ad un doppio ruolo di analgesia e trattamento che si basano in questi casi su presupposti anche farmacologici diversi, sappiamo inoltre che il rischio di addiction è piuttosto variabile e spesso indirizzato più a comportamenti rituali e a profili personologici, che a franche volontà di abuso.
Per affrontare questi delicati aspetti si dovrà cercare quindi scorporare il dolore a dimensione esistenziale e crearvi brecce di non dolore, che permettano ai desideri, alla voglia di vivere, alla necessità di normalità, di emergere dal tunnel stesso del dolore.
Il dolore è un’esperienza soggettiva, individuale, con caratteristiche intimistiche di sopportazione, di necessità di terapia, che vanno sempre e comunque personalizzate, questo è il primo passo da comprendere e condividere con il terapeuta, per la normalizzazione del rapporto; è il passaporto terapeutico, in un governo di condizioni complesse che non coincidono quasi mai con la guarigione o con il concetto di restituito ad integrum, sia che si tratti di dolore neoplastico, sia di dolore cronico non neoplastico.
Così come è stato difficile sdoganare culturalmente il concetto di dolore come espiazione esistenziale necessaria, così ora in maniera molto provocatoria, vorremmo parlare, riflettere, sentire altre voci e aprire un forum su dolore e piacere.