Avremmo potuto immaginare un mondo in cui le evoluzioni scientifiche nella medicina sarebbero state diffuse e recepite stando seduti di fronte a un computer? Domanda difficile, molto difficile, persino troppo difficile. Sta di fatto che abbiamo dovuto accettare questa imposizione. Una imposizione che è stata facilitata da una pandemia a sua volta diffusa (imposta?) dai media in modo “virulento”.
Per oltre un anno medici, infermieri e altri professionisti che erano abituati a frequentare i convegni scientifici, e ad apprendere in quelle sedi una serie di nozioni utili per la loro attività clinica, sono stati isolati e indirizzati a usare il loro computer per aggiornarsi. Tutto questo sta generando un mondo medico immaginifico in cui non solo si è perso il rapporto medico-paziente (vedasi articolo del Dott. Albertini), ma sono stati anche compromessi i canali culturali attraverso cui molti, moltissimi professionisti recepivano i venti delle evoluzioni scientifiche. In questo mondo di “medicina fantasiosa”, sempre più pressante, non solo il medico ha imparato a ascoltare i “webinar”, ma anche il malato ha imparato a usare Google come primo approccio ai propri problemi di salute e Yahoo come secondo consulto, recependo notizie e indicazioni terapeutiche la cui origine è, nella maggior parte dei casi, sconosciuta. Le conseguenze di tutto questo, e magari i danni sulla salute pubblica, saranno chiari nel tempo. Per ora possiamo solo prendere atto di ciò che sta accadendo.
Possiamo, però, anche ribellarci e tentare di reintrodurre, con le dovute cautele, una consuetudine che aveva sempre dato ottimi frutti, quella della comunicazione attenta delle novità scientifiche nella medicina fatta nell’ambito di incontri in presenza; quel mondo in cui la comunicazione accademica “certificata” si incontrava e si confrontava con la pratica clinica di tutti i giorni.
Quella modalità di comunicazione scientifica ha generato, nel corso degli ultimi decenni, un significativo miglioramento dell’assistenza, con un conseguente incremento di qualità di vita dei malati e di incremento della aspettativa di vita. Di certo non è stato l’unico fattore responsabile di tutto questo ma con altrettanta sicurezza si può ritenere che abbia contribuito in modo significativo.
Con questo obiettivo in mente, la Fondazione Paolo Procacci ha ritenuto doveroso organizzare un congresso ibrido sulla medicina del dolore, il Roma Pain Days, un congresso per il quale era autorizzata la presenza in aula di massimo 100 partecipanti, inclusi i relatori, con la possibilità di iscrizioni illimitate in rete. Se si escludono le frustrazioni dei molti che non hanno potuto avere il visto per venire in Italia (Cina, Egitto, ecc.), i numeri sono stati incredibili. Le presenze a Roma erano nell’ambito di quanto concesso e gli iscritti in rete erano oltre 1.200.
Per i lettori che fossero interessati a usufruire della visione gratuita di quanto è successo, è possibile e sarà possibile ancora per qualche mese collegarsi con il website dedicato: https://romapaindays.eu/index.php?action=home dove è possibile rivedere tutte le sessioni registrate e, volendo, acquisire l’importante materiale scientifico presentato.*
Di certo i Colleghi costretti a usufruire del materiale in rete non avranno la possibilità di condividere i propri dubbi e le proprie esperienze con i key opinion leaders presenti in sede, ma almeno avranno la possibilità di usufruire di materiale scientifico certificato e selezionato da chi ha fatto della comunicazione nella medicina la propria attività professionale. Ogni persona di buon senso si rende conto che questo non può essere sostituito da Google o da Yahoo. Quindi, se vogliamo migliorare l’assistenza ai nostri malati, lavoriamo insieme per riconquistare un mondo perduto, fatto di interazioni umane e scambi professionali, piuttosto che accettare passivamente le imposizioni del “fantasy world” dei vari Zuckerberg.
Giustino Varrassi
*chi non si fosse iscritto prima del Congresso potrà richiedere l’accesso scrivendo a c.magri@planning.it