E’ stato recentemente pubblicato l’annuale rapporto dell’Agenzia Nazionale per il Farmaco (AIFA) circa l’impiego dei medicinali in Italia, che ha avuto – per la nostra…
Leggi tutto La paura degli oppioidi: un nuovo fantasma sul palcoscenicoAutore: Stefano Coaccioli
Vitamina D e dolore cronico
Negli ultimi dieci anni sono aumentati i lavori che hanno messo in evidenza una significativa correlazione fra i livelli sierici di vitamina D (vit.D) ed…
Leggi tutto Vitamina D e dolore cronicoSull’ereditabilità del dolore
Numerose evidenze hanno documentato l’importanza di fattori genetici in numerose condizioni cliniche caratterizzate da dolore cronico. Significative associazioni familiari sono state infatti dimostrate in molteplici disordini, quali la fibromialgia, la sindrome del colon irritabile, la cefalea ed alcune artriti croniche, ed alcune indagini condotte su gemelli suggeriscono che fattori genetici possano rivestire un ruolo importante nel dolore cronico diffuso e nel low back pain.
Un numero significativo di geni che modulano la nocicezione sono stati identificati come fattori di rischio per un alterato processing del dolore e per lo sviluppo conseguente del dolore neuropatico. Geni che codificano per i recettori degli oppioidi, per i recettori transitori dei canali cationici, per i recettori NMDA, così come è stata dimostrata un’associazione fra un polimorfismo del COMT (un enzima deputato al controllo del metabolismo delle catecolamine) e del TRPV1 e il grado di dolore percepito. Altri studi hanno poi evidenziato una correlazione fra un gene che codifica per il recettore D4 per la dopamina e lo sviluppo di fibromialgia.
Probabilmente, accanto a fattori genetici, anche fattori ambientali – a questi associati ovvero con questi in cooperazione – rivestono un ruolo importante. Un team di ricerca del King’s College di Londra ha studiato gemelli omozigoti e non-omozigoti, riscontrando nei secondi un aplotipo DNA diverso e, ancora, in questi lo spettro clinico del dolore appariva significativamente differente.
Le differenze genetiche, in senso ampio, possono inoltre non soltanto caratterizzare il diverso tipo ed il diverso grado di dolore, ma appaiono anche in grado di differenziare la risposta alla terapia analgesica. Allora, ad esempio, il genere femminile mostra una più modesta soglia per il dolore, così come nelle etnie ispaniche viene documentata una maggiore prevalenza del dolore cronico, rispetto alle popolazioni non-ispaniche.
L’algologo, in conclusione, deve tener conto anche di queste peculiarità, di genere, di familiarità e di etnia, nel momento della diagnosi e del piano terapeutico di un paziente con dolore.
Stefano Coaccioli
Editor In Chief
Sulla questione delle pratiche di auto-cura
L’editoriale di questo numero di Pain Nursing Magazine si apre con una riflessione di Giddens (1995) che scrive “quando vaste aree della vita di un…
Leggi tutto Sulla questione delle pratiche di auto-curaLa meditazione come opportunità terapeutica nel dolore cronico: esperienza personale in una popolazione thailandese residente in Italia
RIASSUNTO
Introduzione. La meditazione può e dovrebbe essere considerata un ausilio importante nell’approccio non-farmacologico della terapia del dolore cronico.
Scopo dello studio. Mettere a confronto meditanti esperti con meditanti non-esperti in relazione a quanto la pratica meditativa riesce a controllare il dolore cronico (DC).
Materiali e metodi. Soggetti: 78 soggetti (35 uomini, 43 donne; età media 45.2±17.6 anni, range 10-72), ma sono stati coinvolti nello studio solo i soggetti con età superiore a 30 anni: 60 soggetti (27 uomini, 33 donne; età media 54.1±10.4 anni, range 31-72). Tra i soggetti studiati 28 (46.6%; 12 uomini, 16 donne; età media 53.2±8.6 anni, range 48-67) riferivano di avere dolore cronico, 16 dei quali hanno dichiarato di soffrire di lombalgia cronica e 12 hanno dichiarato di soffrire di osteoartrosi alle ginocchia. I soggetti con dolore cronico sono stati suddivisi in 2 gruppi: meditanti esperti (ME, con pratica di oltre 10 anni, in grado di praticare meditazione, in ogni singola seduta di pratica, per un periodo compreso fra 40 e 60 minuti); meditanti non esperti (MNE, con pratica inferiore a 3 anni, in grado di praticare meditazione, in ogni singola seduta di pratica, per non più di 20 minuti).
Risultati. Nei 28 soggetti con DC, la valutazione media del DC è risultata pari a 5.1±1.8. Dopo 5 giorni consecutivi di pratica, i ME riferivano una riduzione significativa (p<0.01) del dolore (VAS 3.0±0.5) rispetto alla valutazione basale, mentre i MNE riferivano solo una modesta riduzione del dolore (VAS 4.4±0.4) che non è risultata significativa. Non raggiungeva la significatività il confronto fra i 2 gruppi.
Discussione. Il risultato ottenuto dal confronto tra i due gruppi di non è statisticamente significativo e ciò può essere dovuto al fatto che il numero dei soggetti osservati è modesto. Quindi più tempo si dedica alla meditazione e più significativi saranno i risultati ma alcuni miglioramenti si hanno già a partire dall’utilizzo di questa pratica sin dalle prime sedute.
Parole chiave: dolore cronico, meditazione