Introduzione
Il dolore appartiene alla logica dello sport. Sebbene infatti, l’atleta sia un uomo capace di sopportare le sollecitazioni più esasperate e nonostante lo star bene ed avere un corpo in forma dipenda in larga parte dall’attività motoria, l’attività sportiva può diventare causa di danno soprattutto a carico del sistema muscolo-scheletrico (1). Prima di addentrarci nello specifico clinico-semeiologico occorre però sottolineare che nella valutazione delle manifestazioni algiche del soggetto sportivo sia la soglia del dolore che la soglia di tolleranza del dolore sono più alte e che il campo di sensibilità al dolore (pain sensitivity range) di chi esercita programmi di movimento e di sport è significativamente più alto che nei soggetti normali (2).
Si è diffusamente enfatizzato il concetto che il dolore è un’esperienza multidimensionale. L’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP, International Association for the Study of Pain) definisce oggi, il dolore come “sgradevole esperienza sensoriale ed emozionale, associata ad un danno tessutale, attuale o potenziale, ovvero descritta in termini di tale danno” (An unpleasant sensory and emotional experience associated with actual or potential tissue damage or described in terms of such damage. IASP, 1990). La partecipazione delle emozioni e dell’affettività all’esperienza dolorosa, era già stata chiaramente individuata da René Descartes, il quale, nella prima metà del ‘600, definiva il dolore come “un meccanismo di allarme corporeo che avverte l’anima di un pericolo imminente”, nonché dagli studiosi della Grecia antica che distinguevano l’algos, come percezione fisica del dolore, dal pathos, in termini di sofferenza emotiva e psichica e che si traduce oggi nella suddivisione dell’esperienza dolore nelle tre componenti: la componente sensoriale-discriminativa, l’affettivo-motivazionale, la cognitivo-valutativa (3). In quest’ottica, l’azione inibitoria sul dolore esercitata dai programmi di attività fisica dipende molto probabilmente da un’azione sulle seguenti componenti:
- componente sensoriale, che coinvolge meccanismi come la chiusura del “cancello spinale” per stimolazione diretta delle fibre nervose afferenti alle placche neuromuscolari. Attraverso un’azione analgesica indotta da stress (stress induced analgesia) sia mediante meccanismi oppiodi (produzione endogena di endorfine che non oppioidi (neuro mediatori), sia mediante l’aumento di alcuni ormoni tra cui l’ACTH;
- componente emotiva attraverso una riduzione percettiva del dolore.
Diventa allora importante conoscere i confini, fisici e mentali, dell’uomo-atleta e ampliarli.
Il dolore nello sportivo
Le cause del dolore negli sportivi sono molteplici: gesti spinti al di là dei limiti fisiologici, sovraffaticamento di determinate articolazioni, facilità ai traumi distorsivi e contusioni, anche se sempre più spesso i termini di fatica e dolore vengono associati al “superallenamento” (4). E cioè, a carichi allenanti, che servono a determinare un adattamento superiore aumentando prima che si sia verificato un recupero completo. Tutti questi eventi sono vissuti in maniera soggettiva dall’atleta, che minimizza o ingigantisce il dolore a seconda delle proprie disposizioni psicologiche.
Il dolore è, come già detto in precedenza, innanzitutto un meccanismo di difesa che consente a un individuo di reagire al fine di allontanare uno stimolo nocivo. Esso non equivale però alla semplice raccolta e trasmissione di segnali provenienti dalla stimolazione di fibre dolorose (nocicezione). I fattori cognitivi ed emotivi appaiono importanti come le aspettative circa l’intensità del dolore, le precedenti esperienze o le preoccupazioni per il possibile significato del dolore.
È evidente, però, che quando si pratica uno sport con un obiettivo agonistico, la sopportazione del dolore fisico e delle crisi metaboliche diventa il pane quotidiano dell’atleta. Vi sono individui che sopportano agevolmente, altri che impazziscono al solo pensiero, e altri ancora che imparano a sopportarlo attraverso l’acquisizione di particolari tecniche mentali.
Nell’atleta generalmente domina il dolore muscolo-scheletrico, quindi un dolore profondo che ha origine nelle strutture miofasciali, tendinee, capsulari, legamentose, osteo-periostee, articolari (5). Tale dolore è percepito con meno precisione rispetto al dolore cutaneo (ad esempio, la spalla del nuotatore) (6).
Esiste un rapporto tra il dolore e i propri limiti fisici: il dolore è l’informazione che qualcosa non va, è un campanello di allarme che ci consiglia o ci obbliga a fermarci e a non sforzare la parte lesa. Può essere di varia intensità, può essere sopportabile o lacerante fino allo svenimento.
Per quanto riguarda le componenti psicologiche del fenomeno del dolore, sappiamo che questa è un’esperienza percettiva in parte soggettiva, legata al significato che l’individuo le dà. Ma sarà il livello della motivazione a costituire la base su cui resistere, fino addirittura a non percepire il dolore: spesso la motivazione permette all’atleta di sopportare infortuni senza manifestare alcuna sofferenza durante la gara. Eppure non sempre il dolore può verificarsi esclusivamente per ragioni fisiche. Ci sono casi in cui la sua origine viene ricercata nella sfera mentale. In questi casi il problema proviene dalla psiche e per superare il dolore è necessario guardare in faccia i propri sentimenti. Per esempio, il dolore può diventare il modo in cui il fisico si difende: il corpo è la mente e la mente è il corpo (7).
Quindi il dolore non è solo sensazione e la “testa” fa la sua parte: grande peso ha la motivazione nel tollerare, modificare la lettura dell’evento doloroso. La qualità dell’allenamento di un atleta è influenzata dalla capacità di adattamento al dolore. E allora il dolore si “impara” in allenamento e in ogni tipo di gara. Esso inizia quando il limite della resistenza si avvicina (8).
Le percezioni del dolore cambiano: il nuotatore ha la sensazione che qualcuno lo spinga in basso sulla schiena, il ciclista sente la corsa in salita e il giocatore di basket sente che la palla diventa piombo.
La tolleranza del dolore dipende, oltre che da processi fisiologici, da fattori psicologici ed ambientali. In alcuni casi la soglia del dolore viene innalzata permettendo di compiere imprese eccezionali. I comportamenti di tolleranza sono quindi diversi a seconda delle persone e delle loro esperienze di vita, della loro struttura psicologica e degli atteggiamenti relativi all’ambiente socio-culturale. E allora tutto dipende da come lo si valuti, a cosa lo si attribuisca e come si riesca a gareggiare convivendo con il dolore. Così l’atleta impara ad adattare il corpo e la mente, a resistere al dolore e alla fatica. Per fare questo l’atleta necessita di una preparazione mentale.
Metodologia algologica
La valutazione del fenomeno dolore, nella sua globalità, richiede un approccio che abbia come metodologia generale la pianificazione di un procedimento che consenta di gestire il paziente algico programmando uno sviluppo a 4 fasi (9):
- analisi clinica (anamnesi, esame obiettivo, test diagnostici),
- identificazione diagnostica (anche nella sua espressione differenziale),
- soluzione terapeutica (e sue implementazioni),
- revisione valutativa dell’iter diagnostico-terapeutico,
avendo come obiettivo fondamentale quello di fornire al paziente la migliore soluzione analgesica possibile, in accordo con un buon giudizio clinico e psicodinamico. Tutto questo tenendo presente che molto spesso, però, l’orientamento diagnostico, in ambito sportivo, deve essere posto con estrema rapidità, in condizioni ambientali di grande disagio ed avendo frequentemente il dolore quale unico elemento di giudizio per valutare l’entità del danno e di conseguenza la possibilità di far proseguire l’atleta nella prestazione agonistica senza rischio per la sua integrità fisica (10).
Raccolta anamnestica
Comunque, la raccolta anamnestica deve avvenire dalla viva voce del soggetto, sollecitando, con opportune domande, la descrizione, più accurata possibile, di alcuni aspetti del sintomo.
Fondamentale è la capacità del soggetto di localizzare, con più o meno precisione, la sede del dolore (circoscritto, diffuso; superficiale, profondo – maggiore è la capacità di discriminazione spaziale più la struttura interessata è superficiale) e la sua distribuzione (se ha una diffusione metamerica-dermatomerica, scleromerica, miomerica- o no; se c’è un dolore irradiato, proiettato, riferito) (11).
Devono essere, inoltre, indagate:
a. la qualità (ad es.: puntorio, urente, gravativo, costrittivo, tensivo, lacerante, indefinibile, ecc.)
b. l’intensità (mediante scale verbali, da lieve a insopportabile, o strumenti analogici (VAS),
c. la modalità d’insorgenza (improvvisa, rapida, graduale),
d. l’andamento nel tempo (continuo, subcontinuo, ondulante, accessionale).
Anamnesi sportiva
Naturalmente la conoscenza degli aspetti biomeccanici del gesto sportivo forniscono un notevole aiuto per la formulazione della diagnosi. Accanto all’anamnesi algologica occorre quindi un’accurata anamnesi sportiva. Risulta, infatti, particolarmente utile conoscere le tecniche di allenamento con i relativi carichi di lavoro cui è sottoposto l’atleta nel corso della sua attività, non dimenticando, tuttavia, che in molti casi la sintomatologia dolorosa è conseguenza di un’azione traumatica acuta (12).
Ricerca di segni obiettivi
A questa fase di orientamento generale, seguirà la meticolosa ricerca di segni obiettivi: lesioni di continuità, evidenze flogistiche, segni di attività neurovegetativa (vasodisfunzione locale, sudorazione, attività pilomotoria ecc.), deformità, tumefazioni, aree di allodinia (comparsa di dolore in seguito a stimoli innocui), di iperalgesia (risposta esagerata ad uno stimolo doloroso), iperpatia (sindrome dolorosa nella quale dopo uno stimolo, specie se ripetuto (sommazione spaziale o temporale), c’è una reazione dolorosa abnorme, spesso a carattere esplosivo, insieme ad un innalzamento della soglia dolorifica; possono essere presenti altri sintomi quali: difettosa identificazione e localizzazione dello stimolo, latenza di risposta, irradiazione e permanenza del dolore anche dopo che lo stimolo è cessato – dolore residuo) (13).
Test clinico-funzionali
Utile, anche a questo scopo, l’esecuzione di test clinico-funzionali quali la mobilizzazione passiva, attiva e contro resistenza dei segmenti corporei interessati (fondamentali, talvolta, per individuare dolori ad insorgenza elettiva, che orientano decisamente la diagnosi, specie nel dolore muscolo-scheletrico), e di test neurologici.
Fattori intrinseci
D’aiuto è anche l’individuazione dell’eventuale presenza dei cosiddetti fattori intrinseci ed estrinseci. Nei fattori intrinseci vengono compresi i difetti di assialità (da cui, ad es., derivano variazioni dalla norma delle risultanti dei vettori di forza applicati sul tendine), le dismetrie degli arti (soprattutto inferiori), gli squilibri muscolari tra agonisti e antagonisti, e, infine, la debolezza di un gruppo muscolare (14). Ad esempio, nello specifico del nostro riferimento, l’eccessiva pronazione del piede e la presenza di un accentuato cavismo dell’arco plantare possono essere alla base di una tendinopatia achillea o del tibiale posteriore; così come le dismetrie degli arti inferiori sono in grado di provocare tendinopatie per differenze superiori ai 15 mm (eccessiva pronazione di compenso del piede e della caviglia dell’arto più lungo). Anche un’eccessiva debolezza muscolare può favorire l’insorgenza di una tendinopatia in un atleta, ad es., al quale si somministra un rapido (15) incremento dei carichi di lavoro, senza attendere la comparsa dei fisiologici meccanismi di adattamento dell’unità muscolo-tendinea.
Fattori estrinseci
I fattori estrinseci comprendono, accanto agli errori di allenamento, le anomale risposte elastiche dei conglomerati plastici usati nella pavimentazione di piste, pedane e campi, le condizioni ambientali (clima eccessivamente umido o freddo), un’attrezzatura sportiva non idonea (una racchetta con accordatura troppo tesa, una bicicletta con sellino basso, calzature sprovviste di supporto plantare idoneo, ecc.) (16).
L’identificazione diagnostica trae, infine, notevole giovamento dall’uso di metodiche strumentali non invasive quali la teletermografia, l’ecografia, gli esami radiografici, l’elettromiografia, la RMN.
Meccanismi patogenetici
Ci soffermiamo qui su quelli che sono i meccanismi senza dubbio più frequenti (incidendo per il 30/50% nei confronti di tutte le lesioni da sport) nella genesi di dolore muscolo-scheletrico nello sportivo, il dolore da trauma, cioè, e da microtrauma (17).
Nel dolore da trauma solitamente c’è un rapporto chiaro di causalità evento-patologia. Qualunque sia il tessuto interessato viene descritto:
- un dolore immediato, strettamente connesso al momento lesivo
- un dolore ricorrente (o ritardato), che insorge in successione al precedente, che può durare minuti, ore o giorni in rapporto all’entità e all’evoluzione dei fenomeni reattivi conseguenti. Attenzione a distinguere questo dolore ritardato dal dolore tardivo, che può insorgere non durante l’esecuzione di una attività fisica, ma molte ore dopo la cessazione della stessa, e che è in rapporto con l’esecuzione di un esercizio dinamico eccentrico, ovvero di una contrazione delle fibrocellule in corso di allungamento del muscolo (lavoro negativo).
Il danneggiamento traumatico di una struttura somatica profonda può non limitarsi a provocare un dolore loco-regionale (il più delle volte a distribuzione metamerica), ma pone il soggetto a rischio di reazioni algodistrofiche, con l’attivazione, cioè, o la partecipazione patogenetica, meglio, di vie riflesse simpatiche (18). Come, ad esempio, nella traumatologia del ginocchio, in cui, se il processo patologico tende a cronicizzare, si possono evidenziare aree di iperalgesia al III inferiore di coscia, accompagnate da edema duro e ipotrofia muscolare, prevalentemente in sede mediale; o come nella frattura meniscale, evento peraltro frequente in alcune discipline, in cui può essere evidente una ipotrofia muscolare, di solito a carico del vasto mediale, che non viene modificata dagli esercizi di riabilitazione prima che il menisco leso venga rimosso (19). A differenza del trauma, nell’azione microtraumatica, che peraltro è quella che maggiormente incide nella genesi delle lesioni tendinee, a prevalere non è il singolo episodio ma il sovraccarico funzionale cui viene sottoposto l’apparato locomotore dell’atleta nel corso della sua attività. Per sovraccarico si intende la ripetizione del gesto sportivo o di atti motori specifici per tempi eccessivamente lunghi, o con intensità tale da determinare un’azione
meccanico-traumatica sulle strutture interessate (20). La sintomatologia soggettiva comune a tutte le lesioni da sovraccarico, e alle tendinopatie in particolare, è rappresentata da un dolore che si manifesta nel corso delle sollecitazioni funzionali o, in genere, durante quelle attività che ripetono il gesto sportivo “incriminato”. Dal punto di vista anamnestico la conoscenza degli aspetti biomeccanici dell’attività sportiva indagata e l’individuazione dell’azione patologicamente sinergica dei già visti fattori intrinseci ed estrinseci, che inevitabilmente amplificano ed esaltano l’azione politraumatica delle sollecitazioni funzionali, forniscono un notevole aiuto alla formulazione della diagnosi. Da un punto di vista obiettivo il dolore viene risvegliato dalla pressione e dalla palpazione esercitata in corrispondenza della formazione tendinea interessata, o nel corso di manovre funzionali, quale, ad esempio, la contrazione del muscolo contro resistenza, o l’allungamento passivo (21).
Lo sport che dà patologia
In traumatologia sportiva solitamente si distinguono due tipi sostanzialmente diversi di danno: la lesione acuta, dovuta ad un evento traumatico unico, concentrato nel tempo e che determina un danno immediato, e la lesione cronica, determinata da un eccesso di attività (sovraccarico funzionale), cioè conseguente a sollecitazioni abnormi o ripetute eccessivamente. Quest’ultime riguardano ovviamente soggetti particolarmente o troppo impegnati in quella disciplina sportiva o che non seguono un’adeguata progressione nell’allenamento: anche soggetti della stessa età anagrafica possono trovarsi per costituzione o per sviluppo diversi in condizioni fisiche anche molto differenti, che richiedono un’attenzione specifica e carichi di lavoro differenziati. Tratteremo in questo scritto proprio delle lesioni croniche, da sovraccarico funzionale, che si instaurano cioè lentamente, all’inizio senza creare particolari problemi, ma che poi se non adeguatamente considerate arriveranno a rendere difficoltosa l’attività o a farla addirittura interrompere (22).
Lesioni croniche da sovraccarico funzionale
La patogenesi di queste lesioni è rappresentata dal ripetersi infinito di sollecitazioni microtraumatiche legate ad esempio a un gesto atletico viziato, con impegno delle articolazioni e delle strutture molli accessorie oltre i limiti consentiti, oppure ad un eccesso di traumi diretti negli sport di contatto e di combattimento, ad un uso errato di calzature o di attrezzi ginnici e così via. Tutto questo su un terreno biologico così “fragile”, come quello che caratterizza un organismo in accrescimento, dove i continui e repentini cambiamenti strutturali rendono più difficili la coordinazione ed il controllo motori. I microtraumi ripetuti all’inizio determinano danni modesti e riparabili, che poi con il ripresentarsi troppo frequentemente trapassano in alterazioni anatomiche vere e proprie, con quadri patologici tipici dell’età giovanile, come la spondilolisi. Questa si caratterizza per una mancata fusione della parte posteriore di un arco vertebrale per eccesso di sollecitazione meccanica come può avvenire in determinate attività sportive, quali ginnastica artistica, tuffi, pesistica (23).
Sull’osso si possono determinare fratture parziali (non elusive di questa età) dette fratture “da fatica” o “da stress”, sui tendini possono comparire sofferenze all’inserzione degli stessi sulla superficie ossea, con quadri simili all’epicondilite o alla pubalgia dell’adulto.
I quadri anatomopatologici da sovraccarico funzionale tipici di queste età sono però le osteocondrosi che possono localizzarsi in diversi distretti, specie dell’arto inferiore (24).
Si definiscono come un processo degenerativo-necrotico dei nuclei di ossificazione delle epifisi o delle apofisi ossee e si presentano durante il periodo di maggiore attività osteogenetica. La lesione sembra determinata da un deficit di vascolarizzazione che determina alla fine una necrosi cellulare più o meno diffusa nel nucleo, costituito da una parte centrale ossea e da un mantello periferico cartilagineo. La conseguente diminuzione delle resistenze meccaniche del nucleo predispone alla sua stessa deformazione per azione del carico e dell’azione traente delle inserzioni tendinee. Tutte le osteocondrosi possiedono un decorso relativamente benigno e lento, nel quale il processo necrotico regredisce spontaneamente per far posto ad una successiva riparazione e definitiva ossificazione del nucleo, solitamente con alterazioni morfo-strutturali permanenti.
La localizzazione più frequente è quella del ginocchio, per interessamento della apofisi tibiale anteriore sollecitata dalla inserzione del tendine rotuleo, che può portare ad una sua parziale avulsione in trazione. Viene indicata anche col nome di Osgood-Schlatter, dal nome degli autori che per primi la descrissero. Colpisce entrambi i sessi, ma più frequentemente i maschi tra i 10 e 15 anni e si manifesta con dolore locale, anche vivo alla pressione, e tumefazione in corrispondenza della tuberosità tibiale, che migliora con il riposo e peggiora con l’attività sportiva, soprattutto la corsa ed il salto. Il decorso, che prevede la sospensione dell’attività sportiva, necessità di circa 6 -18 mesi e solitamente l’evoluzione è benigna, anche se spesso si assiste a ricadute a distanza e talvolta residua la tumefazione a permanenza (25).
Un’altra forma di frequente riscontro è quella localizzata al calcagno e insorge fra gli 8 e i 13 anni, con dolore localizzato nella parte posteriore del calcagno, dove è presente un nucleo di ossificazione su cui si inserisce il tendine di Achille. L’evoluzione è sempre benigna e non causa deformità locale, ma la durata può anche essere lunga (12-24 mesi).
Più rara, ma più grave la forma localizzata all’epifisi prossimale del femore e detta anche di Perthes, Legg e Calvè, che colpisce entrambi i sessi tra i 6 e i 12 anni, con esiti spesso invalidanti per la grave deformazione permanente della testa femorale, che esita poi in un artrosi secondaria precoce. Altre localizzazioni possono avvenire allo scafoide tarsale, al semilunare carpale, al secondo metatarso e ai nuclei accessori vertebrali.
Sarebbe opportuno che questi quadri patologici fossero ben conosciuti dagli istruttori sportivi, che potrebbero essere i primi ad insospettirsi di fronte ad un giovane atleta che lamenta i disturbi sopra descritti, per inviarlo precocemente ad un controllo specialistico. Sicuramente una diagnosi precoce sarebbe il miglior approccio a queste lesioni ed il primo passo per scongiurare l’instaurarsi di quadri irreversibili e permanenti (26).
Nell’età che va dai 10 ai 16 anni i traumi e i microtraumi causati dall’attività sportiva superano quelli causati da incidenti della strada. In questa fascia di età ci sono ragioni legate alla crescita e alla struttura dell’osso che rendono alcuni tipi di lesione più frequenti e temibili. Per esempio, il distacco epifisario e dell’apofisi di inserzione muscolo-tendinea è più frequente del danno dei legamenti ed è temibile perché il danno della cartilagine di accrescimento può avere ripercussioni sia sulla crescita dell’osso che sulla funzionalità dell’articolazione in età adulta. Ma a parte le ragioni anatomiche e fisiologiche che rendono conto delle patologie ortopediche da sport sono in aumento e sono in parte prevenibili i traumi da “eccessiva utilizzazione” (overuse) che possono riguardare sia i tessuti molli che l’osso. Questo tipo di danno si verifica soprattutto all’inizio della stagione con un allenamento che si intensifica troppo rapidamente, e alla fine della stagione, quando le gare o le manifestazioni di fine anno inducono “super allenamenti” alla ricerca di una super prestazione. L’insorgenza di questi problemi è spesso subdola e inizialmente il dolore passa durante il periodo di riposo, ma con l’andar del tempo diventa cronico e presente anche a riposo. La radiografia è quasi sempre negativa all’inizio dei sintomi mentre acquista significato nelle 3-4 settimane successive. Nella Tabella 1 sono riassunte le principali patologie da eccessivo utilizzo, alcune delle quali, come si vede, sono tutt’altro che banali e richiedono interventi specialistici (27). Accanto a questi quadri ben definiti, e che coinvolgono specifici distretti in rapporto al tipo di sport svolto, ricordiamo la sindrome da iperallenamento, caratterizzata da dolori muscolo-scheletrici cronici e scarso rendimento sportivo. È intuitivo che la prevenzione e la cura della patologia da eccessivo utilizzo consistono nel riportare l’attività fisica a livelli sopportabili con allenamenti adeguati,tempi di riscaldamento e raffreddamento rispettati, tempi di recupero incoraggiati e non assimilati a pigrizia. Molto meno immediata è la considerazione che la prevenzione dei traumi, e non solo da “eccessivo utilizzo”, passa per la valutazione di tutto il complesso di strutture, persone e attrezzature che hanno a che fare con l’attività sportiva.
È un programma di prevenzione che parte da lontano, fin dalla formazione offerta agli istruttori e allenatori e, parallelamente, dalle informazioni date ai genitori e ai ragazzi con una reciproca assunzione di responsabilità. Il programma deve continuare con la garanzia di sicurezza degli impianti (terreni e pavimentazioni idonei, rispetto degli spazi di caduta, manutenzione delle attrezzature) con conoscenza e verifica di adeguatezza dei materiali (calzature, indumenti, ausili di protezione come casco e ginocchiere). Il bambino tende ad accettare situazioni di rischio perché non le riconosce come tali, l’adolescente tende ad accettarle per sfida ed entrambi hanno una minore percezione della fatica. Entrambi hanno una minore capacità di termoregolazione rispetto all’adulto: questo è un altro motivo per il quale lo sport può causare patologia, nozione che deve essere conosciuta e tenuta in considerazione dai pediatri e dagli allenatori. La percezione dei danni da alterata termoregolazione deve tener conto del vestiario, della necessità di un periodo di acclimatazione e di un riscaldamento che preceda lo sforzo vero e proprio, del rischio di esposizione a temperature estreme durante uno sforzo fisico e di un’adeguata idratazione. Ugualmente devono essere noti, e quindi tempestivamente riconosciuti, i sintomi da eccessivo riscaldamento (cefalea, brividi, nausea, erezione dei peli) e da eccessivo raffreddamento (euforia o disorientamento, seguiti da apatia) con particolare attenzione a quelle condizioni che di per sé alterano le capacità dell’organismo di adattarsi allo sforzo; è il caso dell’obesità che è una situazione in cui l’attività fisica viene contemplata all’interno di un programma terapeutico.
Le lesioni muscolo-scheletriche nel maratoneta
Nella maratona viene esasperata la tolleranza al carico delle componenti muscolotendinee degli arti inferiori. La biomeccanica del gesto atletico ripetuto ciclicamente per un lungo periodo di tempo (variabile a seconda del livello di prestazione) richiede una costituzione muscoloscheletrica il più possibile perfetta. Alterazioni anatomiche dei diversi segmenti dell’apparato locomotore, alterazioni nella biomeccanica articolare, difetti tecnici, alterazioni degenerative articolari legate all’età media, in genere elevata, dei maratoneti, portano a patologie da sovraccarico che richiedono, spesso, tempi lunghi di guarigione. Talora l’atleta deve ritirarsi. Le patologie più frequenti sono a carico della colonna lombare, dell’anca, del ginocchio e del piede.
Le discopatie degenerative lombari hanno come fattore patogenetico un impoverimento del contenuto acquoso a livello del disco intervertebrale, che comincia a diventare sintomatico (dolore). Il microtrauma ripetuto su un disco degenerato può far progredire la degenerazione fino a creare erniazioni del disco e compressioni delle radici nervose (lombosciatalgia). Non è sicuro che un disco sano si possa ammalare a causa di un allenamento per corse di lunga durata, ma il dato epidemiologico certo è che il maratoneta con lombalgia, ne riferisce l’insorgenza dall’inizio degli allenamenti. La lombalgia non è una malattia ma è considerata un sintomo che in ambito sportivo riconosce molteplici fattori eziologici (23). Le lesioni possono interessare sia le ossa che i tessuti molli, ma mentre le lesioni ossee sono facilmente diagnosticabili con una valutazione radiografica, per le lesioni a carico dei tessuti molli può esserci difficoltà nella diagnosi e quindi nella scelta della terapia.
Le condizioni che portano all’insorgere di una patologia da sovraccarico al rachide, possibile causa di lombalgia, si verificano quando:
- l’atleta non è adatto alle situazioni richieste,
- la biomeccanica del gesto sportivo risulta scorretta,
- il lavoro sul rachide comporta carichi, tensioni o resistenze che non riflettono la sua fisiologia.
Sono evidenziabili anomalie morfologiche del rachide congenite, o acquisite, che ne alterano l’equilibrio meccanico e funzionale.
Si possono distinguere tre tipi di sovraccarico funzionale:
- sovraccarico da fatica: i continui movimenti di flesso-estensione e torsione sono la causa di microtraumi ripetitivi che spesso vengono aggravati da periodi di recupero non adeguati tra uno sforzo e l’altro;
- sovraccarico da carico supermassimale: si verifica per esaurimento della forza muscolare, cioè quando, per sopportare il carico, si utilizzano improvvisamente le strutture ossee, tendinee e capsulari del rachide, che può andare incontro a cedimenti strutturali;
- sovraccarico involontario: causato da un errore tecnico, cattiva forma, caduta o collisione.
Lo sport ha effetti contraddittori sul rachide lombare. Da un lato rinforza le masse e l’elasticità muscolare, con un effetto ammortizzante sulle strutture discali, dall’altro i microtraumi ripetuti della pratica sportiva possono risultare nocivi (26). Le lesioni al rachide rappresentano il 10-15% delle lesioni tipiche della pratica sportiva a livello agonistico e le più gravi sono riportate negli sport di contatto come calcio, rugby, hockey, pallanuoto, pallavolo e pallacanestro.
Coxalgie (dolore inguinocrurale) e gonalgie (dolore al ginocchio) aspecifiche in maratoneti over 40 hanno come substrato alterazioni cartilaginee degenerative artrosiche, dell’anca e del ginocchio, che diventano sintomatiche a causa del superlavoro ammortizzante effettuato durante gli allenamenti.
Il dolore laterale di ginocchio, il dolore al tallone, il dolore all’avampiede sono entità cliniche ben studiate e ben caratterizzate, che hanno come fattore eziopatogenetico prevalente un difetto nella biomeccanica articolare durante la corsa. Entesite della bendelletta laterale del ginocchio; fascite plantare; metatarsalgia; sono fenomeni infiammatori tendinei o articolari che insorgono in atleti con alterazioni anatomiche del piede (piede cavo o piatto) ed in particolare in un eccessivo o scarso meccanismo ammortizzante (pronazione o supinazione) del peso corporeo nella fase di appoggio al terreno durante la corsa.
La terapia ideale sarebbe la correzione della biomeccanica alterata. Ma, dal momento che non è possibile una correzione della struttura scheletrica adulta con metodiche incruente, spesso la terapia è solo sintomatica (mira a risolvere l’infiammazione insorta) e si basa su mezzi fisioterapici (laser, ultrasuoni, magnetoterapia, ecc.), riequilibrio muscolare, riposo, plantari o tutori ortopedici e sulla prevenzione.
La figura dell’allenatore è fondamentale nella prevenzione degli infortuni, in quanto deve essere in grado di programmare un allenamento specifico per il singolo atleta. Devono essere corretti i difetti tecnici, deve essere effettuato un controllo del riscaldamento pre-allenamento, dello stretching, dei tempi durante le ripetute, dei “lunghi” (che spesso sono effettuati in periodi troppo ravvicinati) e deve essere consigliato il tipo di calzatura idoneo.
Infine ci sono le lesioni durante la gara vera e propria. Queste sono lesioni legate all’affaticamento propriocettivo articolare che insorge dal 30° chilometro. L’atleta perde la capacità di avvertire ed ammortizzare asperità del terreno, dislivelli del marciapiede o cambiamenti di direzione (curve o sorpassi da parte di altri maratoneti) e si procura distorsioni di caviglia e ginocchio con conseguente impossibilità a proseguire la gara. Il trattamento di queste lesioni non differisce dal trattamento standard effettuato negli altri sport (immobilizzazione con bendaggio) (27).
Conclusioni
Lo sportivo può manifestare dolore in un numero molto elevato di condizioni, proprio in conseguenza dell’attività praticata.
Il rilievo anamnestico-semeiologico deve essere il primo fondamentale passo verso l’orientamento diagnostico poiché spesso, in ambito sportivo, deve essere posto con estrema rapidità, in condizioni ambientali di grande disagio ed avendo frequentemente il dolore quale unico elemento di giudizio per valutare l’entità del danno, e di conseguenza la possibilità di far proseguire l’atleta nella prestazione agonistica senza rischio per la sua integrità fisica.
In ambito sportivo, inoltre, l’analisi del dolore è complicata dall’interferenza di numerosi fattori individuali quali l’atteggiamento psicologico, la personalità, i modelli etnici e culturali.
Inoltre, nell’ambito della patologia cronica dell’atleta, nessuna pianificazione terapeutica efficace può essere messa in atto senza la capacità metodologica di differenziare le diverse espressioni cliniche, avendo, per lo più, come elemento cardine, talora il solo, un sintomo – il dolore – per tutte le stagioni, a cui si aggiunge la ancora incompleta conoscenza che di esso si ha dal punto di vista fisiopatologico. Esso deve essere, quindi, costantemente, pazientemente, puntigliosamente, analizzato e approfondito ai fini diagnostici.
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