ANCHE GLI ANIMALI SOFFRONO
Con il progredire delle conoscenze scientifiche, è stato appurato che tutti gli animali, dai molluschi agli uccelli, dai rettili ai mammiferi, posseggono le componenti neuroanatomiche e neurofisiologiche necessarie per la trasduzione, la modulazione, la trasmissione e la percezione degli stimoli nocivi. È anche stato stabilito che nell’uomo e negli animali, nocicettori e fibre nervose sono virtualmente identici, così come molto simili sono i percorsi neurotrasmettitoriali e le aree corticali deputate all’elaborazione dello stimolo algico.
La percezione cosciente del dolore è un’esperienza emozionale che gli uomini sono in grado di esprimere verbalmente e che non può essere misurata negli animali. In questi però le esperienze dolorose sono sempre seguite da manifestazioni adattative volte ad evitare uno stimolo doloroso conosciuto, il che ci porta ad ipotizzare che anche gli animali possano provare emozioni o ricordi.
La possibilità che gli animali provino dolore è peraltro suffragata dal fatto che essi sono istintivamente portati ad assumere composti dotati di azione analgesica. Studi condotti in ratti artritici e sani hanno dimostrato che, potendo scegliere tra l’abbeverarsi con acqua dolcificata o acqua contenente suprafen, i primi optavano per questa seconda scelta, a differenza dei secondi che invece preferivano l’acqua zuccherata. Inoltre il grado di auto-medicazione era perfettamente proporzionale alla severità del dolore. Lo stesso è stato osservato in studi condotti sui polli, dove l’entità dell’assunzione di alimento medicato con FANS risultava direttamente correlata al grado di patologia articolare (1).
Va inoltre ricordato che la maggior parte degli studi volti a valutare l’efficacia di farmaci analgesici viene condotta su modelli animali in cui condizioni di dolore acuto o cronico vengono indotte sperimentalmente. Alcuni degli effetti conseguenti ad una riorganizzazione strutturale e funzionale permanente del sistema nervoso in via di sviluppo, a seguito di esperienze dolorose importanti, sono stati descritti negli animali da laboratorio, ed è piuttosto verosimile che essi si possano presentare anche in tutte le altre specie animali.
Stanti le attuali conoscenze, è pertanto certo che anche gli animali siano in grado di percepire il dolore a livello cosciente e non solo come stimolo riflesso. Stimoli dolorosi per l’uomo lo sono dunque anche per gli animali (2).
Nel mondo animale le cause di dolore sono sovrapponibili a quelle note per l’uomo: traumi, interventi chirurgici volti a risolvere una patologia, processi infiammatori acuti o cronici, neuropatie, patologie neoplastiche, ecc. A queste si aggiungono interventi di chirurgia elettiva destinati ad animali da compagnia (quali, ad esempio, castrazione, ovario-isterectomia, taglio di coda e orecchie, ablazione delle unghie, asportazione delle ghiandole perianali), nonché agli animali da reddito (come castrazione, decornazione, taglio della coda, spuntamento dei denti, mutilazione del becco). In questa seconda categoria di animali, fonti di dolore possono essere anche le patologie indotte dai sistemi di gestione dell’allevamento e quelle agevolate dalla selezione genetica (e, ovviamente, le pratiche di stordimento e di macellazione).
L’aumento delle conoscenze in campo medico-veterinario, nonché la sensibilità dei proprietari riguardo la sofferenza dei propri animali, ha pertanto fatto muovere molti passi avanti nell’ambito del “compassionate care”, e il controllo del dolore, almeno negli animali da affezione, è diventato ampiamente riconosciuto quale componente necessaria delle cure veterinarie.
LIMITI ALLA TERAPIA DEL DOLORE NEGLI ANIMALI
Nonostante quanto appena affermato, alcune ricerche relativamente recenti hanno evidenziato come gli analgesici siano ancora poco utilizzati nella pratica veterinaria (3).
Le cause di ridotta applicazione di protocolli analgesici da parte dei veterinari possono essere riconducibili a svariati motivi: mancanza di conoscenze approfondite circa neurofisiologia del dolore e caratteristiche farmacocinetiche e farmacodimamiche degli analgesici, difficoltà nel riconoscere la presenza di stati algici e nel determinarne l’intensità, limitato numero di farmaci analgesici registrati per le diverse specie animali, paura dei potenziali effetti collaterali dei farmaci, esistenza di pregiudizi sull’uso di farmaci analgesici, soprattutto per quanto riguarda gli oppioidi (4-9). Tali motivi giustificano, a volte, la scarsa attitudine dei clinici a trattare il dolore nei propri pazienti.
Mentre alcune di queste cause, come la difficoltà nel riconoscere la presenza di uno stato algico in soggetti non verbalizzanti o la carenza di farmaci analgesici registrati per gli animali, comportano in alcuni casi dei limiti all’intervento farmacologico, tutte le altre sono facilmente superabili con la semplice rimozione di certi pregiudizi e un minimo di informazione in più. Per molto tempo si è ritenuto che la persistenza di un certo livello di dolore durante il periodo postoperatorio fosse di qualche beneficio, in quanto incoraggiante l’immobilità e di conseguenza la guarigione; oggi è ormai riconosciuto che il dolore postoperatorio può al contrario ritardare il recupero, in conseguenza di un certo numero di effetti collaterali significativamente negativi: l’immobilità, per esempio, può ritardare la rimarginazione dell’osso, mentre l’inappetenza e l’insonnia, entrambe associate alla presenza di dolore, portano ad uno stato catabolico esagerato ed allungano il tempo necessario alla guarigione delle ferite (6). Parimenti, molti dei pregiudizi che limitano l’uso degli oppioidi possono essere facilmente ovviati da una maggiore conoscenza riguardo alle caratteristiche farmacologiche di questa classe di farmaci che, se usati correttamente, rappresentano uno dei migliori presidi terapeutici per la lotta al dolore.
Il vero limite al trattamento del dolore negli animali è quello che accomuna tale classe di pazienti ai pazienti umani non verbalizzanti: la difficoltà nell’emettere una diagnosi di dolore, stante la mancata comunicazione, da parte del soggetto in preda a sofferenza, circa sede ed intensità del dolore percepito.
Nei pazienti non-umani peraltro, oltre alla impossibilità nel trasformare la loro esperienza in parole, esiste un secondo ordine di problema in merito al riconoscimento del dolore: quasi tutte le specie animali tendono istintivamente a mascherare la presenza di dolore, in quanto il contrario potrebbe essere di svantaggio per l’individuo che ne è affetto. Le specie predate tendenzialmente mascherano i danni e le malattie, probabilmente allo scopo di non attirare l’attenzione sulla loro vulnerabilità. Le specie predatrici che fanno parte di una gerarchia, parimenti, nascondono la presenza di dolore e ferite in quanto essere vulnerabili comporterebbe la perdita della posizione gerarchica acquisita e conseguentemente l’accesso alle risorse migliori. Quando in preda a dolore la maggior parte degli animali tende pertanto a nasconderlo piuttosto che a mostrarlo apertamente (10).
L’interpretazione dello stato algico negli animali è resa ancor più difficoltosa se si considera che una condizione di sofferenza può celarsi dietro atteggiamenti apparentemente equivoci, come uno stato di particolare tranquillità o immobilità: classico esempio è dato da gatti poli-traumatizzati che continuano a fare le fusa.
DIAGNOSI DI DOLORE NEGLI ANIMALI
Ad oggi, ancora non esiste un sistema universalmente riconosciuto per valutare il dolore negli animali.
Varie strategie sono state investigate sia in via sperimentale che nella pratica clinica, nel tentativo di individuare misure oggettive in grado di valutare il dolore acuto e cronico negli animali. Queste includono l’osservazione e la registrazione di risposte fisiologiche (frequenza cardiaca e respiratoria, pressione sanguigna, perfusione capillare, ventilazione polmonare, gas ematici, dilatazione pupillare, ecc.), neuroendocrine (cortisolo, -endorfine, catecolamine, glucagone, ADH, ecc.), metaboliche (metabolismo glucidico, lipidico, proteico, bilancio idrico ed elettrolitico, ecc.) e locomotorie al dolore (11,12).
Purtroppo, allo stato attuale nessuna di queste misure rappresenta un valido indicatore di uno stato algico, in quanto ciascuna di esse risulta influenzata da numerosi altri fattori che entrano in gioco in qualsiasi stato che implichi una condizione di stress (13).
Al momento la diagnosi di dolore negli animali può essere effettuata esclusivamente sulla base della stima del potenziale livello di dolore che può essere raggiunto a seconda del tipo di intervento che l’animale è prossimo a subire o dell’entità del trauma subito (diagnosi presuntiva) e sull’osservazione del comportamento dell’animale (diagnosi deduttiva).
In linea di massima, si può affermare che alcune procedure sono da considerare particolarmente dolorose, come la toracotomia, la chirurgia articolare, molte procedure oftalmologiche e tutti gli interventi che presuppongono traumi tessutali estesi, ma che anche tecniche relativamente non-invasive (come la castrazione) possono causare un certo livello di dolore. Parimenti, è verosimile che l’intensità del dolore percepito sia proporzionale all’estensione del danno che fa seguito ad un evento traumatico. Va precisato che tale stima è solo presunta, dal momento che l’effettivo livello di dolore percepito dall’animale variare in relazione ad una serie di fattori, quali la soglia individuale del dolore e la presenza di concomitanti fonti di dolore. Inoltre, gli animali giovani, nonché i pazienti critici, tendono ad essere meno tolleranti al dolore e alle variazioni neurofisiologiche ad esso associate, al contrario di quelli anziani. Infine, va tenuto conto del fatto che un chirurgo inesperto può causare maggior trauma tessutale e conseguentemente maggior dolorabilità rispetto ad un chirurgo esperto (14,15).
In merito agli atteggiamenti comportamentali, va ricordato che le risposte degli animali al dolore acuto possono essere estremamente variabili e contraddittorie, essendo soggette a notevoli variazioni specie specifiche e individuali.
Aggressività verso altri animali o persone, o al contrario tendenza a nascondersi o a fuggire, portamenti e/o andature inusuali, zoppie che possono arrivare a compromettere la deambulazione, riluttanza a muoversi, incapacità di svolgere normali attività ( riduzione del “grooming”, defecazione e urinazione in casa), o viceversa esasperazione delle stesse (es. eccessiva tolettatura), vocalizzazioni e autotraumatismi sono solo alcuni dei possibili atteggiamenti comportamentali che possono accompagnare uno stato algico acuto.
Per quanto riguarda il dolore persistente o cronico, a meno che questo non sia localizzato, come in caso di dolore dentale o di dolore ortopedico a carico di una o più articolazioni (responsabili di segni più specifici quali rispettivamente una masticazione rallentata o lateralizzata e zoppia, rigidità e risparmio dell’arto coinvolto), e a parte rari casi in cui si verificano cambiamenti comportamentali patologici, come la comparsa di aggressività, di ansia, di comportamenti compulsivi o bizzarri (per esempio, attaccare improvvisamente la coda e poi correre velocemente in circolo), spesso gli animali ne manifestano la presenza esclusivamente mediante variazioni del loro stile di vita. La riduzione o l’assenza di attività, il cambio di abitudini, il ridotto interesse per l’ambiente circostante e la perdita di peso che fa seguito all’inappetenza o al ridotto introito di cibo e acqua, sono tra i più frequenti comportamenti che possono essere individuati in un animale affetto da una patologia algica cronica. La comparsa di modificazioni nello stile di vita dell’animale, accompagnate o meno da modificazioni patologiche del comportamento o da segni specifici, deve dunque far sospettare sempre la presenza di uno stato algico (16, 10). Va comunque tenuto presente che tali modificazioni non devono mai essere considerate da sole, ma sempre in relazione all’ambiente circostante e a possibili modificazioni avvenute nello stesso, che potrebbero aver condizionato il comportamento dell’animale (10).
Un ulteriore strumento diagnostico utilizzabile in medicina veterinaria è rappresentato dall’impiego di scale del dolore o pain scores. Vengono utilizzate scale unidimenzionali quali quelle impiegate in medicina umana (per esempio, VAS), che servono a misurare esclusivamente l’intensità del dolore provato dagli animali, e scale multiparametriche, consistenti in un sistema di gradazione numerica comprendente varie categorie (comfort, movimento, comportamento, vocalizzazioni, parametri fisiologici) a ciascuna delle quali è attribuito un punteggio. Con tali scale si ha la possibilità di valutare non solo l’intensità dello stato algico, ma anche le risposte fisiologiche e comportamentali al dolore.
Per poter effettuare una corretta valutazione del paziente con dolore non è possibile prescindere da una accurata valutazione clinica, volta ad evidenziare eventuali modificazioni a carico di vari organi e apparati, il cui funzionamento può risultare alterato come conseguenza degli effetti fisiopatologici del dolore. La visita del paziente deve prevedere un approccio integrato, in cui, parallelamente alla ricerca di modificazioni comportamentali, venga indagata, mediante esame obiettivo, la presenza di segni, possibili indici di dolore, a carico dell’apparato cardiovascolare, respiratorio, digerente, urinario, neurologico e muscolo scheletrico; alla visita clinica diretta può essere associata l’effettuazione di indagini collaterali di laboratorio, volte ad individuare eventuali modificazioni metaboliche e neuroendocrine ascrivibili alla presenza di dolore.
Purtroppo tutti i metodi di valutazione fin’ora esposti sono soggetti a dei limiti: essi sono infatti spesso specie-specifici, non sempre oggettivi, a volte di difficile applicazione pratica, quasi mai in grado di individuare i caratteri del dolore né tantomeno gli aspetti patogenetici.
Per poterli mettere in pratica sono peraltro necessarie notevole esperienza clinica e competenze multidisciplinari.
IL CENTRO DI STUDIO SUL DOLORE ANIMALE (CeSDA)
È noto come la difficoltà a manifestare la presenza di algia da parte di pazienti non verbalizzanti (bambini molto piccoli, soggetti dementi, pazienti in stato comatoso), comporti per i medici curanti notevoli limiti diagnostici e terapeutici. Alla luce di quanto detto nei paragrafi precedenti appare chiaro che, quando si parla di dolore, tali difficoltà e sono condivise anche dai medici veterinari.
Un approccio multidisciplinare che veda coinvolti medici umani e veterinari nella ricerca di strumenti diagnostici e terapeutici comuni è pertanto decisamente auspicabile, nell’ottica di migliorare il benessere dei rispettivi pazienti.
Con questo scopo, presso l’ateneo di Perugia è stato istituito il Centro di Studio sul Dolore Animale (CeSDA). Tale centro vede coinvolti docenti della Facoltà di Medicina Veterinaria e di Medicina e Chirurgia, nonché collaboratori esterni (veterinari e medici liberi professionisti e altre figure professionali esperte a vario titolo delle diverse problematiche connesse al dolore).
Obiettivi principali del centro sono quelli di armonizzare e coordinare le iniziative scientifiche, culturali e didattiche nel campo delle problematiche connesse al dolore nei pazienti animali, principalmente con l’obiettivo di:
proporre progetti di ricerca aventi come tema il dolore animale (cercando gli strumenti più adatti per poter approntare una semeiotica del dolore e i trattamenti appropriati);
incoraggiare la collaborazione, sia in ambito nazionale che internazionale, nell’ambito di ricerche specie-specifiche, tra i possibili interlocutori (medici e veterinari a confronto!), favorendo discussioni interdisciplinari sull’argomento;
favorire l’organizzazione, sia a livello universitario che post-universitario, di corsi di formazione in tema di dolore, rivolti sia a medici veterinari che a medici umani, e volti a potenziare le conoscenze in tema di algologia.
È sicuramente un progetto ambizioso, ma se si riesce a perseguire con entusiasmo e determinazione porterà sicuramente ad un enorme beneficio, soprattutto in termini di qualità della vita di uomini e animali.
BIBLIOGRAFIA
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