Un’analisi e rilettura del classico articolo di Fordyce, “Dolore e sofferenza: qual è l’unità?”, per contribuire a rendere il modello di dolore cronico veramente biopsicosociale
La rivista Pain di febbraio 2023 ha pubblicato un articolo di Mark Sullivan, John Sturgeon, Mark Lumley, Jane Ballantyne, che rilegge, alla luce degli ultimi 30 anni di ricerche, un articolo del 1994 di Wilbert “Bill” Fordyce “Dolore e sofferenza: qual è l’unità?”.
Da tempo si parla di modello biopsicosociale (BPS) del dolore cronico, un modello che aspira a essere completo, incorporando fattori psicologici e sociali omessi dai modelli biomedici. Sebbene si ritenga che i fattori psicosociali abbiano una loro influenza nella comprensione delle risposte comportamentali e psicologiche al dolore, questi fattori sono solitamente considerati come elementi modificatori delle cause biologiche dell’esperienza del dolore stesso, piuttosto che “contributori” paritari del dolore.
Nell’articolo del 1994 Fordyce suggeriva che la disabilità e la sofferenza legate al dolore dovrebbero essere considerate “transdermiche”, in quanto hanno cause sia interne che esterne al corpo. “L'”unità”, quindi, con cui l’operatore sanitario si confronta quando si occupa di pazienti affetti da dolore è un’entità biopsicosociale che comprende molto di più di ciò che risiede all’interno della pelle.
L’articolo di Fordyce, sottolineano gli autori, è importante dal punto di vista teorico perché ha permesso di svincolarsi dal modello medico del dolore cronico in modo più completo rispetto alle formulazioni abituali del modello BPS. Permette di porre i fattori psicologici e sociali sullo stesso piano di quelli biologici nella spiegazione del dolore stesso e di eliminare le distinzioni tra meccanismi e significati del dolore, va oltre i limiti dell’incontro clinico, aprendo la porta all’intera gamma di interventi sociali, psicologici e biologici, mettendo i pazienti e gli operatori non medici in condizione di affrontare il dolore cronico.
Fordyce si era concentrato sugli aspetti contingenti legati all’ambiente sociale e sul conseguente impatto sul comportamento e sulla sofferenza dei pazienti. Questa visione ha plasmato non solo il trattamento, ma anche gli interventi cognitivo-comportamentali per i tre decenni successivi. Ma Fordyce non poteva ancora sapere ciò che le neuroscienze hanno poi insegnato sulla capacità del cervello di integrare nell’esperienza del dolore molteplici fonti di interferenza negativa.
La ricerca suggerisce ora che il contesto socioculturale può guidare l’insorgenza, la gravità e il mantenimento del dolore stesso. È ampiamente riconosciuto che i fattori sociali influenzano l’accesso alle cure, compresa la probabilità di essere valutati per il proprio dolore e di ricevere vari trattamenti, nonché l’efficacia di tali trattamenti. Inoltre, i fattori sociali possono anche contribuire a determinare l’insorgenza o la gravità del dolore. Così come le esperienze passate dei pazienti con traumi infantili possono attivare il sistema cerebrale di salienza-pericolo/minaccia e quindi le vie del dolore, anche le esperienze sociali, attuali o passate, che indicano un pericolo possono attivare l’allarme del dolore. Ci sono poi una miriade di rischi psicosociali, come la perdita o l’instabilità di lavoro, la retrocessione nella gerarchia sociale, il rifiuto sociale e l’ingiustizia sociale. Anche queste sfide al proprio status sociale possono attivare l’allarme dolore-pericolo, determinando una prevalenza e una gravità del dolore sproporzionate. Si potrebbe anche considerare la presenza o la gravità del dolore come una dichiarazione di iniquità, ingiustizia e danno. “Mi fa male” è un grido personale che riflette il proprio corpo, la propria psiche e la propria situazione sociale.
Negli ultimi 20 anni, la ricerca tramite neuroimaging ha iniziato a dimostrare che i fattori sociali e psicologici possono attivare nel cervello strutture simili a quelle attivate dall’input nocicettivo. La ricerca ha messo sempre più in evidenza la sovrapposizione dei circuiti neurali legati all’esperienza del dolore fisico e alle esperienze socialmente dolorose, tra cui l’esclusione, il rifiuto e il lutto. Gli individui con dolore cronico presentano tassi più elevati di esperienze di vita avverse e di esposizioni traumatiche rispetto alla popolazione generale, e questi fattori sembrano essere predittori dell’insorgenza e della gravità del dolore cronico.
I meccanismi che si sostiene siano alla base della connessione tra ambienti sociali avversi e dolore cronico includono: disregolazione del sistema immunitario, alterazione della funzione endocrina, carenze nelle capacità di riconoscimento e regolazione delle emozioni, connettività alterata dello stato di riposo e sensibilizzazione del sistema nervoso centrale. Queste influenze psicologiche e sociali sul dolore sono state in passato classificate all’interno di un quadro dualistico come dolore “psicogeno”, “funzionale” o “somatizzato”, che veniva contrapposto al dolore puramente “somatogeno” o “fisico”. Ma ora questi meccanismi psicofisiologici, e la rete di salienza cerebrale all’interno della quale operano, ci offrono un quadro non dualistico per la causalità del dolore che integra le cause che hanno origine sia all’interno che all’esterno del corpo sotto il concetto unificante di “pericolo”, che può comprendere sia le minacce fisiche che quelle sociali. Le ricerche condotte finora suggeriscono che quando gli individui si trovano in circostanze altamente stressanti, minacciose o invalidanti, possono diventare vulnerabili a risposte sensibilizzate e iperprotettive come il dolore. Per esempio, la depressione e l’ansia sono spesso interpretate come risposte emotive all’esperienza sensoriale avversiva del dolore cronico. Ma ci sono buone prove epidemiologiche che la depressione e l’ansia possono anche precedere l’insorgenza del dolore cronico e aumentare il rischio di insorgenza, gravità o cronicizzazione del dolore cronico.
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Gli autori riflettono anche sui problemi nella valutazione del dolore che iniziano da una formazione medica incentrata sulle malattie e sui danni biologici. Lo studente di medicina sarà ritenuto responsabile di aver sbagliato una diagnosi di cancro o di osso rotto, ma non sarà ritenuto responsabile allo stesso modo per non aver individuato una determinante psicosociale del dolore o della malattia, come il disturbo da stress post-traumatico. Il sostegno e la rassicurazione sull’assenza di gravi danni corporei possono essere di per sé terapeutici e talvolta possono essere tutto ciò che i pazienti cercano o di cui hanno bisogno. Ma ci si aspetta anche che il medico trovi una spiegazione e faccia una diagnosi in modo che qualcosa possa essere risolto.
Il problema continua quindi tra le mura dello studio medico. Il modello biopsicosociale per il dolore e il suo trattamento è stato accettato da tempo, ma è stato” soffocato” nello studio medico, che è organizzato per indagare, testare e fare diagnosi sui corpi dei pazienti. La natura stessa dell’incontro clinico è stata costruita per concentrare l’attenzione “all’interno della pelle”.
Può darsi che il medico non sia in grado di affrontare i mali della società che causano o contribuiscono al dolore, ma il riconoscimento di questi limiti da parte dei sistemi sanitari potrebbe rappresentare un importante passo avanti.
Per spiegare meglio questo aspetto gli autori ricordano la polemica in cui fu coinvolto Fordyce nel 1996, quando in qualità di presidente di una task force della IASP (International Association for the Study of Pain) sul dolore nei luoghi di lavoro, redasse un rapporto in cui raccomandava che dopo sei settimane di riabilitazione non venisse più riconosciuto lo status di invalidità ai lavoratori con lesioni alla schiena che non erano in grado di tornare al lavoro. In un certo senso dichiarava che la medicina non aveva più nulla da offrire una volta che alle persone con dolore erano stati offerti servizi diagnostici, curativi e riabilitativi adeguati. Questa raccomandazione fu accolta molto male nella comunità di medicina del dolore, perché fu interpretata come una dichiarazione che il dolore persistente non è più reale.
Si tratta ora di sperare che venga compreso che il dolore può essere reale anche se le sue cause e le sue soluzioni si trovano al di fuori dell’ambulatorio medico. La difficoltà sta nel trovare una strategia di uscita dal modello biomedico che permetta di inquadrare i fattori psicosociali che contribuiscono al dolore come primari, senza invalidare il dolore e la sofferenza del paziente.
“Tuttavia non siamo impotenti – rimarcano gli autori -. La nostra conoscenza si estende a una nuova comprensione di come il cervello integri i fattori che oggi sarebbero considerati fuori dal controllo della medicina. Grazie a questa comprensione, possiamo offrire nuovi approcci terapeutici che aiutino a invertire i danni causati da fattori sociali e societari avversi. A tal fine è necessario riconcepire il dolore come un segnale di allarme derivante da una percezione di pericolo. Ai pazienti può essere insegnato questo modello e possono iniziare a comprendere e affrontare queste fonti di pericolo. Forse i pazienti possono apportare cambiamenti nella loro vita, ma anche se non possono farlo, la comprensione delle fonti del dolore può comunque essere utile.”
Ma allora cosa deve fare chi cura il paziente con dolore cronico?
Proseguono Sullivan e coll.: “I pazienti continueranno a lamentarsi per il dolore di cui stanno soffrendo. Il primo ruolo del medico è quello di trovare una causa corporea e trattarla, se esiste, ricordando che la maggior parte dei casi di dolore cronico non ha spiegazioni biomediche valide. La formulazione di una diagnosi medica accurata rimane il ruolo principale del medico, ma la rassicurazione e la comunicazione di sicurezza sono abilità altrettanto importanti nel trattamento del dolore cronico.
Ciò è particolarmente vero per il dolore che oggi potremmo definire dolore cronico primario secondo la definizione dell’ICD-11. Questo è il tipo comune di dolore per il quale gli approcci medici convenzionali si sono rivelati carenti. Questo è il dolore che chiede una riconcettualizzazione completa, una nuova comprensione di ciò che è tale dolore, che coinvolge necessariamente i pazienti stessi, spesso supportati da approcci comportamentali specialistici. In questo caso, i medici non sono impotenti perché possono fornire rassicurazioni, alleviando la paura che può contribuire a sviluppare dolore refrattario.
Un vero modello biopsicosociale del dolore cronico sfida non solo il modello biomedico, ma sottolinea anche in modo più ampio i limiti del modello clinico tradizionale di cura del dolore. Sfida non solo l’idea biomedica secondo cui il dolore è causato da malattie e danni, ma anche l’idea del modello BPS che dà la priorità ai fattori biologici e relega i fattori psicologici e sociali a “modulatori” del dolore.
L’assistenza clinica di solito si limita a obiettivi di intervento che possono essere affrontati con i singoli pazienti in ambito clinico. Il dolore cronico, tuttavia, non è solo un problema clinico e non dovremmo consegnare la nostra concettualizzazione e il trattamento del dolore a ciò che è affrontabile nella clinica. Il lavoro clinico rischia non solo di “biomedicalizzare” le persone che soffrono, ma anche di “psicologizzarle”, riducendole a individui i cui corpi – o i cui pensieri, emozioni e comportamenti – sono la causa del loro dolore e hanno bisogno di essere cambiati.
Nel corso della sua carriera, concludono gli autori, Fordyce si è sforzato di comprendere i pazienti con dolore cronico nel loro contesto sociale. Nei suoi ultimi anni, la sua critica alla tradizionale comprensione clinica del dolore e l’enfasi sulle determinanti sociali del dolore hanno provocato una rottura con alcuni dei suoi colleghi. Ma Fordyce aveva ragione nell’indicare l’idea che fattori socioculturali più ampi svolgano un ruolo fondamentale nell’esperienza del dolore cronico. “La vita nel suo insieme – biologico, psicologico, sociale e contestuale – così come il passato, il presente e il futuro sono importanti per il dolore. Non abbiamo bisogno di essere sconfitti da questa complessità, ma dobbiamo incorporarla nel modo in cui comprendiamo, valutiamo e trattiamo il dolore.”
Sullivan MD, Sturgeon JA, Lumley MA, Ballantyne JC. Reconsidering Fordyce’s classic article, “Pain and suffering: what is the unit?” to help make our model of chronic pain truly biopsychosocial. PAIN 164(2):p 271-279, February 2023. |
DOI: 10.1097/j.pain.0000000000002748