Ruolo del nursing nella comunicazione verso l’anziano con disturbi dell’affettività

Introduzione

La dignità delle persone è strettamente legata alla possibilità di potersi esprimere ed essere ascoltate. La parola è connessa al pensiero ed alla nostra visione del mondo, è nelle parole che vive la nostra umanità. Più si impoveriscono il nostro vocabolario e la nostra capacità di comunicare, più si è soli a condividere esperienze, ricordi e idee, più diventerà limitato il nostro pensiero, più povera la nostra vita (1).
Dice Oliver Sacks ne “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”: ”Se vogliamo sapere qualcosa di un uomo chiediamo: qual è la sua storia, la sua storia vera intima? Poiché ciascuno di noi è una biografia, una storia. Ognuno di noi è un racconto peculiare, costruito di continuo, inconsciamente da noi, in noi e attraverso di noi, attraverso le nostre percezioni, i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre azioni e, non ultimo, il nostro discorso, i nostri racconti orali. Da un punto di vista biologico, fisiologico, noi non differiamo molto l’uno dall’altro: storicamente come racconti, ognuno di noi è unico”. La nostra identità è definita in parte da ciò che raccontiamo di noi a noi stessi, in parte da come gli altri ci narrano e da quel che le nostre azioni dicono di noi. Che cosa fa una persona che racconta di sé a qualcun altro? In un certo senso risponde ad una domanda, e la domanda che l’altro pone esplicitamente o silenziosamente è la domanda “chi sei?”. Tale domanda la poniamo spesso a noi e agli altri e altrettanto spesso ad essa rispondiamo, e questa risposta è necessaria per costruire e conservare la nostra identità. Nel raccontare c’è un aspetto di continuità, ovvero si racconta affinché qualcun altro possa continuare la nostra storia. La filosofa Adriana Cavarero sostiene infatti che “noi raccontiamo di noi perché un altro possa raccontare di noi” (2).
Diversi studi hanno evidenziato che l’anziano può mantenere la sua efficienza psichica globale se sfrutta le risorse residue. Molte opere di scienziati, scrittori, filosofi e artisti, compiute in età avanzata, rappresentano un perfezionamento dei lavori precedenti. E, pur non appartenendo ad alcuna di quelle categorie, ciascuna persona vivendo ha scritto la sua storia e continua a scriverla nella propria memoria ed in quella degli altri. Perché possa continuare a farlo occorre però che si senta vista, ascoltata, riconosciuta nel proprio valore, è necessario che sappia di avere un posto nel mondo.

La nostra indagine

Anni orsono facemmo una serie di interviste sulla percezione del tempo che trascorre, nella considerazione che questo non sempre paia procedere alla stessa maniera: i minuti e le ore sembrano allungarsi o improvvisamente rimpicciolirsi a seconda delle attese, degli appuntamenti, delle scadenze, delle età della vita. Il tempo legato a ciò che si deve fare, a qualcosa o qualcuno che si sta aspettando, allo stare con gli altri, all’essere in relazione. Da questi e altri pensieri è sorta l’idea di intervistare persone che avessero già attraversato diverse fasi della vita e fossero dunque tra i 70 e i 90 anni, residenti nella propria abitazione, chi da solo chi con il coniuge.
Le domande esploravano il trascorrere delle giornate e lo scorrere delle ore della notte. Facevano narrare i riti del quotidiano e quelli delle pause di veglia notturna. Chiedevano delle similitudini e delle differenze sui modi di vivere la giornata nel loro ieri e nell’oggi. Facevano raccontare i progetti e parlare dei desideri e delle paure, del disagio del passaggio dalla lira all’euro e di eventuali timori per il futuro. Nelle narrazioni comparivano le storie della vita con i personaggi del passato quali nonni, genitori, fratelli, e quelli del presente: coniugi, figli, nipoti; era interessante osservare il tempo già avvenuto danzare con l’odierno per ipotizzare quello che sarebbe dovuto arrivare. Il tempo veniva associato alla memoria, questa alle persone ed ai luoghi e quindi il tempo alle persone. Ho intervistato alcune coppie di ultrasettantenni in buona salute, con una discreta vita sociale. Ciò che emergeva dai loro racconti era la sensazione che il tempo scorresse troppo velocemente allorché incombessero impegni da svolgere (faccende di casa, spesa, progetti) e l’attribuzione di questa tirannia alla maggiore lentezza nei movimenti, alla difficoltà di “mettersi in moto”, all’aumentata cautela nel condurre l’auto, all’insicurezza prodotta dal sentire e dal vedere peggio di una volta. Narravano dell’attenzione ai prezzi nel fare la spesa, e della scelta dei luoghi in cui fare le provviste: al mercato venivano acquistati alcuni prodotti mentre al supermercato si dovevano tenere d’occhio le offerte. Mi dicevano delle pensioni stazionarie e del lievitare del costo della vita con l’avvento dell’euro; della loro preoccupazione per il futuro e del timore di dover chiedere l’aiuto dei figli. Mi parlavano di progetti quali rimettere in funzione una vecchia radio di cui non si trovavano più i pezzi, cucire le tende per la casa ancora in costruzione della figlia, recarsi in paesi lontani per rivedere le sorelle e poi del desiderio di vedere i nipoti con una occupazione stabile. Mi dicevano di quanto il tempo fosse volato facendo la conta dei parenti e degli amici rimasti e ricordando pure personaggi dello spettacolo loro coetanei ormai scomparsi.
Riaprivano sul passato e facevano comparire campi di concentramento, rientri in patria, ideologie di allora rimaste immutate adesso, narravano per raccontarsi ma non solo: raccontavano col desiderio di tramandare la loro storia a chi li ascoltava, per trasmettere il loro modo di vedere. Con sguardo disincantato, parlavano di pazienza, di tolleranza nei confronti dei giovani e della responsabilità che sentivano nell’aver contribuito a formare l’attuale società. Raccontavano della televisione degli anni ‘60 e di quella odierna, esprimevano la preoccupazione per il futuro, ma più che per il loro per il nostro. Volevano dire perché ne sapevano ed affermavano l’importanza di sentirsi riconosciuti per continuare a rappresentare la memoria del passato prima che una malattia o il vuoto dei ricordi li portasse lontano.
L’uomo può sopportare una grave avversità fisica o spirituale, ma ciò che non può reggere è l’assenza di significato. Il nemico ultimo non è il dolore, la malattia o la disabilità, ma l’insignificanza. Quello che risulta terribile è la convinzione di non essere necessari, di non dare un contributo, di vivere una vita senza senso (3).
Il timore più grande per l’anziano non è la morte, piuttosto la malattia, l’abbandono, la scarsa considerazione delle persone con cui ha sempre vissuto, il rifiuto, il sentirsi fragili. Tutto ciò lo può condurre a vivere in una condizione di ansia continua.
Il pericolo maggiore quindi è l’isolamento che può portare ad una minore motivazione nell’affrontare la vita e ad un minore uso, e conseguente perdita, delle abilità cognitive.

La condizione dell’anziano

Oltre una decina di anni fa un’indagine del CENSIS mostrava come la condizione anziana sia tutt’altro che una condizione spenta e passiva, e che di fatto il sentirsi anziano non coincide con il superamento di una soglia anagrafica, quanto piuttosto con l’imbattersi in circostanze quali l’entrare in istituzioni o essere debilitato fisicamente. Non a caso queste due condizioni, prime nella graduatoria dei motivi del sentirsi anziano hanno fortemente a che fare più con una senescenza psicologica che con una senescenza fisiologica: perché entrare in istituzione cambia radicalmente il proprio contesto di vita e i riferimenti relazionali, mentre un handicap fisico cambia la percezione di sé e modifica il proprio livello di indipendenza.
Depressione e disabilità sono nella persona anziana strettamente correlate, il legame tra le due è determinato dalla contemporanea presenza di comorbidità, dall’impoverimento dei contatti sociali e dalla riduzione della “vita attiva”. In particolare, maggiore è il livello di compromissione dello stato di salute e di autonomia funzionale, più intensa è la forza con cui la depressione si esprime (4). Ne è la dimostrazione la sua più alta prevalenza negli anziani ospedalizzati e, ancor più, in quelli ospiti di residenze per disabili e non auto-sufficienti (5).
L’approccio all’esistenza, proposto dai media, porta ad attribuire il senso della vita in proporzione al livello di efficienza, dando l’impressione che la vita dell’uomo debba essere misurata in base alle prestazioni possibili. Questo tipo di misura penalizza chi non può essere all’altezza (6).
Il suicidio è oggi la nona causa di morte nel mondo e circa il 70% dei suicidi avvengono in soggetti depressi. Molti dati indicano una forte associazione tra suicidio e depressione nell’anziano. Dati recenti indicano che i suicidi di anziani rappresentano circa il 25% dei suicidi nel mondo. Un altro rapporto ha potuto evidenziare che in una serie di più di 100 suicidi geriatrici, circa il 93% soffriva di depressione associata a malattia e dolori.
I fattori di rischio per il suicidio sono numerosi e vanno sempre presi in considerazione. Essi includono: il sesso maschile, l’età avanzata, la perdita di speranza per il futuro, i sentimenti di disperazione e di colpa, la perdita di piacere, l’abuso di alcool, il rifiuto di contatti con l’esterno, i piccoli gesti auto-lesivi spesso giustificati come distrazione, i dolori cronici non controllati dalla terapia analgesica, il desiderio di morire, espresso nelle parole: “Cosa faccio in questo mondo? Sono solo, non ho nulla da sperare dal futuro”, “Sto male, perché continuare a soffrire”, ecc. La presenza di due o tre di questi fattori ed un ritornare sovente su temi di morte deve allarmare chi è vicino al paziente.

Il ruolo dell’infermiere

L’infermiere rappresenta colui che trascorre il maggior tempo con il malato, chi può e deve stabilire una relazione di cura fondata sul rispetto di quella persona malata e della sua intimità, intimità intesa nel senso più ampio del termine in quanto senza di essa l’uomo perde la propria dignità, e l’ascolto; l’infermiere è infine chi ha quindi la migliore possibilità di raccogliere eventuali segnali per cui attivarsi ed avviare il contesto adeguato. Non esistono solo queste situazioni esasperate ma anche tante condizioni a rischio di depressione per il paziente anziano ed è quindi prioritario riconoscere la depressione del vecchio quale malattia e non come la pressoché inevitabile conseguenza della senescenza ed aspetto di essa. Nella considerazione della malattia che colpisce una persona ancorché anziana, occorre intervenire su questa in termini di prevenzione e nel prendersene globalmente cura.
Coloro che soffrono di dolore cronico rischiano tre volte di più di ammalarsi di depressione e chi soffre di depressione si ammala tre volte più spesso di dolore cronico e lo patisce con un maggiore grado di severità. La depressione porta all’isolamento e l’isolamento aumenta il rischio di depressione; il dolore limita i movimenti e l’immobilità spesso è causa di ulteriore dolore. L’infermiere in qualità di responsabile dell’assistenza ha il dovere di raccogliere i bisogni di salute del paziente e di rispondere a questi, oltre ché attraverso il piano assistenziale individualizzato, tramite la comunicazione personalizzata.
Comunicare ha il significato di mettere in comune, di muoversi in un terreno noto ed accettato da entrambi; nella considerazione che ciascuna persona dia una sua misura alle cose che avvengono, ovvero dia ad esse il loro senso, quindi anche al dolore ed alla malattia, la comunicazione è uno scambio di narrazioni che si costruisce momento per momento e non è mai definitiva (7). Il professionista della salute dovrebbe favorire la narrazione e co-narrare insieme al paziente.
Come comunicare con il paziente anziano con disturbi dell’affettività si potrà declinare, quindi, attraverso la curiosità di cercare in questi la persona che è, o forse meglio, il suo modo di guardare a sé ed alla propria vita, riconoscendogli la propria unicità e, nel comporre insieme una relazione di fiducia, consentirgli di costruire con noi un percorso rivolto al farlo stare o, almeno, sentire meglio.
In tale modo diminuisce il rischio di produrre nel paziente la reattanza psicologica, intesa come percezione di perdita delle aspettative di controllo nei confronti di cose che considera acquisite e garantite. Le manifestazioni di reattanza possono essere di sfida, di non cooperazione, di aggressività e di rabbia. Infine, la reattanza psicologica pone il malato in una posizione di aumentata minorità e di scarsa autonomia fino a produrre quel senso di impotenza profonda e perdita della reattività che viene definita impotenza appresa, in cui il paziente racconta e si racconta una storia, sempre la stessa, da cui risulta che ogni tentativo di reagire alla situazione è destinato al fallimento. Il tentativo diventa quindi quello di facilitare al paziente la narrazione di altre storie possibili che presentino un intreccio ed un finale sia pur di poco differente (8,9).
Spesso negli anziani con deterioramento cognitivo o con disturbi emotivi si manifestano sospettosità, deliri di persecuzione e deliri paranoici. Una percentuale compresa tra il 2 ed il 5% degli anziani nella popolazione generale denota sospettosità eccessiva e deliri persecutori, circa il 4-5% ha deliri ed allucinazioni. Sono note l’inefficacia del mettere a confronto il paziente con l’irragionevolezza ed i falsi presupposti insiti nell’ideazione paranoide ed il rischio conseguente di rottura della relazione terapeutica. Solo tramite questa, senza ingannare il paziente nel fingersi d’accordo con le convinzioni paranoidi ma attraverso l’ ascolto e l’interesse nel volere comprendere il suo malessere al fine di lavorarci insieme, nonostante il disaccordo circa l’origine del problema, è possibile raggiungere l’obiettivo della costruzione di una relazione di fiducia e sicurezza che possa consentire il riesame delle convinzioni del paziente. È altrettanto importante inserire e prendersi cura delle persone di riferimento del paziente e stabilire con esse una corretta relazione terapeutica (10).
Il 90% dei pazienti affetti da deterioramento cognitivo presenta, con una variabilità individuale, correlata anche allo stadio della malattia, sintomi non cognitivi: psicosi (deliri, misidentificazioni, allucinazioni), alterazioni dell’umore (depressione, euforia, labilità emotiva), ansia, disturbi dell’attività psicomotoria (vagabondaggio, affaccendamento afinalistico, acatisia), agitazione (aggressività verbale o fisica, vocalizzazione persistente), alterazioni della personalità (indifferenza, apatia, disinibizione, irritabilità), sintomi neurovegetativi (alterazioni del ritmo sonno-veglia, dell’appetito, del comportamento sessuale) (11).
La depressione contribuisce ad aumentare la disabilità, la sofferenza individuale, la disgregazione familiare e l’istituzionalizzazione precoce (12).

Il ruolo del “caregiver”

L’inadeguata comprensione sia della natura progressiva della malattia che delle limitazioni cognitivo-comportamentali, ed inappropriati sensi di colpa e aspettative non realistiche sono gli elementi che più frequentemente possono determinare nei familiari sentimenti di rabbia, frustrazione e depressione. Alcuni studi indicano che le caratteristiche ed il benessere dei familiari piuttosto che i sintomi del paziente sono maggiormente predittivi del ricorso alla istituzionalizzazione e al ricovero in ospedale (13,14).
Uno dei principi nella cura delle persone dementi è considerare il paziente e la famiglia un insieme unitario. Il supporto e la formazione della famiglia sono fondamentali per la corretta realizzazione di un programma assistenziale al malato demente (15,16).
Si definisce “caregiver” colui che, nell’ambito familiare, ha responsabilità primaria nel provvedere alle necessità dell’anziano; secondo i dati della letteratura la maggioranza dei caregiver sono femmine, mogli o nuore, ma più spesso figlie (17). L’età di chi fornisce assistenza è generalmente compresa tra 50 e 70 anni, ma molte persone più anziane si occupano delle attività di cura, se si considera che più di 1/3 dell’assistenza informale (a carico di familiari e amici) a soggetti ultrasessantacinquenni è fornita da ultrasettantenni.
Lo stress del caregiver è la tensione emotiva del dare cura. Molte studi dimostrano che i caregiver soffrono di depressione più dei soggetti di controllo. Altri studi suggeriscono che i caregiver siano maggiormente soggetti a problemi di salute fisica come il diabete e le cardiopatie (18-23).
Nella ulteriore considerazione che, i caregiver di oggi saranno i vecchi di domani e che ciascun professionista della salute si debba preoccupare soprattutto di prevenire le malattie, l’attenzione alla comunicazione, l’ascolto, il supporto, l’affiancamento ai familiari rappresenta oltre che un gesto etico una scelta culturalmente sostanziata.

Bibliografia

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